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Viviani
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VIVIANI E IL TEATRO A LUI CONTEMPORANEO
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- Con Vincenzo Scarpetta e Eduardo De Filippo.
- Viviani e Vittorio De Sica alla prima di Ladri di Biciclette (1948).
- Viviani in “Filiberto Esposito”. |
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RAFFAELE VIVIANI
“Non mi fisso sempre una trama, mi fisso un ambiente; scelgo i personaggi più comuni a questo ambiente e li faccio vivere
come in questo ambiente vivono, li faccio parlare come li ho sentiti parlare..............”
PAOLO RICCI
Raffaele Viviani abbandona per primo la tematica tradizionale dei poeti napoletani: ad essa anzi egli è, naturalmente estraneo e
indifferente. I suoi sentimenti vanno oltre le schermaglie sentimentali e l’analisi introspettiva e psicologica. Viviani è un uomo del popolo e le cose del popolo, i suoi problemi, le sue passioni, le sue
amarezze, i suoi umori, la sua miseria, il suo lavoro, le sue speranze egli le sente e le vive dal di dentro. Non c’è dunque distacco didascalico, non c’è freddo impegno di documentazione, non c’è moralismo, né
vezzi e modi stilistici e letterari (il digiacomismo) nella poesia e nel teatro di Viviani (.....) In Viviani le antiche illusioni sono cadute o stanno per cadere: la superstizione non ha più senso, come non ha
più presa il mito della guapparia. Distrutta è la convinzione fatalistica ed ottimistica secondo la quale la provvidenza, alla fine, accomoda ogni cosa... Viviani non dà credito alla cosiddetta poeticità dei
napoletani, alla pretesa loro disposizione al canto e all’allegria (.....) Tutti, da Di Giacomo a Russo gli sono ostili. Gli autori del cosiddetto “Teatro d’arte” urlano, gridano allo scandalo e accusano Viviani
(.....) di offendere Napoli, di scoprire le sue vergogne e compiacersene (.....) Era, la sua, una misura di scrittore e d’artista inconsueta per i napoletani; il suo messaggio creativo era aspro, antigrazioso,
pungente e non poteva ovviamente essere accolto nei salotti, dove invece imperavano le melodie scorrevoli e le raffinatezze letterarie digiacomiane (.....) Questo mi pare il primo dato caratteristico e
assolutamente originale del teatro vivianesco; il quale rompe con la tradizione verista e sentimentale del folclore partenopeo per rifarsi all’illuminante esperienza del varietà, che è una esperienza europea. E
qui che va ricercata la modernità dei teatro di Viviani e i suoi legami obiettivi con certi movimenti dell’avanguardia storica, con l’espressionismo e infine, con Brecht (.....) la classe lavoratrice non
comprende, e non comprenderà mai, perché argomenti di poesia debbano essere soltanto sentimenti e fatti abnormi, “eroici”, astratti e non, anche, per non dire soprattutto, passioni e fatti della vita comune,
sentimenti, affetti, passioni dì uomini semplici:problemi di vita quotidiana: lavoro, giochi; amori discreti e gioie familiari. La stessa carica di verità hanno i personaggi che affollano le strade della città
sotto l’abbagliante e spietata luce del sole. Sono venditori ambulanti, spazzini, ladruncoli, poveri cristi col peso di una famiglia da sfamare, operai disoccupati, ragazze in cerca di marito - “chill’ato
giesucristo” -, zingari, guappi veri e guappi finti... una popolazione varia e multicolore i cui componenti hanno in comune la preoccupazione di tirare a campare la giornata; sulla quale incombe il peso di una
metropoli di tipo afroasiatico che manca di mezzi adeguati di vita: di industrie e di lavoro civile.
I disoccupati sono tanto numerosi che qualsiasi lavoro, per umile e povero che sia, viene da essi considerato una fortuna
(.....) Nella poesia di Viviani non manca, naturalmente il paesaggio. Ma esso non è qualcosa di fermo, classico, idilliaco, quale appare nell’opera dei poeti post-digiacomiani, è piuttosto uno spazio animato,
nel quale si inseriscono con naturalezza gli eventi e i gesti degli uomini. Cosa sono, in fondo, i canti e le voci della strada se non paesaggi costruiti di voci, di suoni di eco quotidiani: immagine diretta,
vibrante, delle formicolanti strade di Napoli? Il mondo della strada, dunque, per primo appassionò e stimolò la sensibilità di Viviani. Queste opere sono come “blocchi” di ritratti umani e sociali e sono
popolate da una gran folla di personaggi; e non è senza significato che i titoli di queste prime opere vivianesche siano i nomi stessi delle piazze e delle strade in cui più intensa e drammatica si svolge la
vita cittadina e in cui i contrasti sociali e la lotta per la vita appaiono con più cruda evidenza. I protagonisti di questa vita pullulante nelle strade sono uomini e donne che sbucano dal vicoli oscuri e che
tirano avanti l’esistenza a furia di invenzioni e di vari espedienti. Appaiono per la prima volta nel teatro popolate gli operai con i loro problemi. Appaiono i disoccupati. Sono insomma uomini e donne “comuni”,
senza nessuna eccezionalità, caratteristica della vieta letteratura popolare, ad agire nelle commedie vivianesche. Viviani ritrae questi personaggi senza il falso intenerimento piccolo borghese. senza
inzaccherato pietismo. I fatti particolari delle persone diventano sintomatici, aspetti di una realtà generale, e l’interesse si allarga dalla trama, com’era nel teatro borghese, al coro, come in una tragedia
moderna (.....) La sua personalità di attore è continuamente “suggerita” dalla sua intuizione di poeta e dalla profonda facoltà indagativa dello scrittore. (.....) E il potere trasfigurativo concesso ai grandi
artisti; quello di osservare le inquietudini che accompagnano l’umanità, partendo da fatti e da realtà alle volte banali, ovvie. I fatti della realtà storica assumono aspetti favolosi, definitivi, risvegliano in
noi le scontentezze ed i tormenti sepolti nel subcosciente. Sono esempi di poesia che si ritrovano in tutte le epoche e che, in definitiva, esprimono, più di ogni altra creazione lirica la temperatura di una
epoca. Viviani rende queste sue opere mirabilmente; tutto il suo corpo “vive” selvaggiamente, quasi invasato da una ebbrezza dionisiaca (.....) Nel caso di Viviani accadde un fatto forse unico nella
storia del teatro moderno: i “numeri” ch’egli componeva per le sue esibizioni nei teatri di Varietà divennero una cellula dalla quale crebbe un organismo teatrale autonomo e nuovo, che non si adeguava a nessun
genere preesistente, la cui forma era il risultato d’un’evoluzione interna nutrita dalla doppia energia delle esigenze del commercio e delle ambizioni artistiche d’un comico di Varietà, che non si contentava dei
suoi limiti (.....) Senza troppo esagerare si può dire che con Viviani assistiamo ad una reinvenzione del teatro nel microcosmo di una storia individuale, a partire dall’autarchia drammaturgica per eccellenza:
il monologo (.....) Nel mondo del teatro, la tecnica usuale per passare dalla frammentarietà dei “numeri” ad uno spettacolo unitario era quella del “filo conduttore” (si veda la voce relativa in Enciclopedia dello Spettacolo: una
di quelle voci inaspettate cui all’inizio accennavamo). La drammaturgia debole del “filo conduttore” caratterizzava la Rivista, un genere relativamente nuovo, libero e anomalo ma pregiato, venuto da Parigi verso
la fine del secolo scorso (.....) Ma Viviani, invece del filo conduttore, si inventò una tecnica dell’impasto fra dramma personale ed ambiente pittoresco, fra musica e parole, fra senso e colore. L’impasto era
uno dei caratteri salienti della sua forma mentis artistica. Chi lo conobbe, ricorda il particolarissimo gesto delle mani rigirate l’una nell’altra con cui accompagnava la sua convinzione basilare: che in teatro
i diversi elementi non dovessero essere intrecciati, ma impastati, di modo che non fosse più possibile separare, neppur volendo, la musica dall’intonazione della battuta, la composizione della messinscena
dall’invenzione degli attori; la premeditazione dall’improvvisazione (.....) L’occasione prossima per questa trasformazione fu commerciale: la chiusura dei teatri di Varietà nel clima austero imposto dopo la
sconfitta di Caporetto nel novembre del 1917. Per comici e fantasisti voleva dire esser costretti all’inattività ed alla miseria. Era l’inizio della stagione teatrale. Viviani ne approfittò per realizzare
qualcosa a cui pensava da tempo: il passaggio dal Varietà alla Commedia (.....) Non passò semplicemente, sostituendo un genere all’altro, ma trasformò il suo Varietà nel suo modo di far commedie. Immaginò un
contesto capace di contenere due, tre, quattro di quei tipi comici e realistici che egli aveva realizzato nei suoi “numeri” e in questo contesto pensò d’intrecciare una trama interessante. Lui poteva così
interpretare nella stessa commedia non solo il protagonista, ma anche alcuni personaggi episodici e ben caratterizzati (come nei monologhi). Come nella “zarzuela”, prosa e canto potevano alternarsi, secondo
quella particolare metrica drammaturgica di cui s’era impratichito nel Varietà (.....) Il suo teatro richiama alla mente le pantomime cubiste, il teatro espressionista di O’Neill.(.....) Si possono chiamare
folclore le incisioni di Goya, le sue “mascherate”, i suoi “capricci”? (.....) Protagonista è la strada, la folla, non come massa omogenea e generalizzata, dal contorni metafisici, ma come l’insieme di
personaggi bene individuabili nelle loro esatte connotazioni storico-sociali, legati alle classi d’origine, con quelle precise caratterizzazioni psicologiche ed umane (e anche di costume) determinate dal loro
modo di vivere concretamente nella realtà.” (.....) Viviani scopre un dialetto aspro, di inaspettato rigore espressivo, che nulla ha a che vedere col dialetto letterario e sottilmente decadente di Di Giacomo, né
col dialetto crudamente documentario e quasi gergale dei Russo. Quello di Viviani è un dialetto aperto, non codificato ma direttamente attinto dal popolo, ed esprime una realtà insospettabile, anche per gli
studiosi e gli attenti indagatori della vita e delle consuetudini dei napoletani (.....) Così, personaggi e figure come il “domestico” di ‘Nterra ‘a Mmaculatella, Sanguetta e altri, della fantastica
popolazione vivianesca, li ritroveremo, coi precipui caratteri del loro ambiente storico-sociale, in Gorkij - che è per così dire, il modello “naturale” di Viviani - e poi nella letteratura che definirei
“sobborghista” della Repubblica di Weimar, nel cinema francese dei Fronte popolare e nella letteratura americana del New Deal (.....) La costruzione della lingua, la terminologia, e, infine, il vocabolario
adottato da Viviani poeta e scrittore di teatro, pur essendo assolutamente “comuni” e parlati, sono, nello stesso tempo, classici e “antichi”. Non per caso, il dialetto vivianesco è, in parte, quello che
registrano gli antichi vocabolari napoletani; come, ad esempio, il Vocabolario domestico del Puoti. Ma la principale riserva linguistica per il grande commediografo napoletano rimane la lingua viva del
popolo, con le tracce di arcaismo che contiene ma anche con le parole nuove che nascono da differenti rapporti di vita e dall’influenza del mondo del lavoro nel costume civile. Accanto alla lingua delle
“villanelle” e dei canti popolari del Seicento, ed anche anteriori, dei grandi poeti barocchi come Cortese, Sgruttendio, Sarnelli e Basile vi è, dunque, in Viviani, la lingua parlata della gente di città, della
grande città moderna: della gente che non ha perduto le proprie radici umane storiche e non ha subito il processo alienante della società dei consumi.
VITO PANDOLFI
I plebei di Viviani sono piuttosto quelli di John Gay; sono gli eredi di quelle masse contadine inurbate, che vivevano ai
margini dei grandi edifici baronali.” (.....) Sia nella forma delle sue rappresentazioni, che nelle deduzioni sociali fatte compiere ai suo personaggi, che nella raffigurazione psicologica dei loro segreti
tormenti, Viviani, inconsciamente, porge soluzioni d’avanguardia, apre nuove strade all’opera d’arte, quelle strade che sono richieste dal momento storico, e che oggi le nuove generazioni si troveranno a dover
riconoscere necessarie. La vocazione di Viviani nasce da circostanze casuali. Si sviluppa in senso artigianesco, per l’esigenza di rifornire se stesso di nuova materia per il palcoscenico (.....) Una
soluzione di spettacolo che sembrava così semplice da temersi semplicistica, diviene scenicamente fondamentale, risolve coerentemente l’impasse in cui da tempo si trova lo spettacolo di prosa, arricchendolo di
mezzi e di fantasia che lo facciano consentaneo alla sua epoca, alle nuove espressioni della civiltà, dandogli contemporaneamente quel sottofondo che ora viene in primo piano, e che risulta dalle esperienze di
vita e di spettacolo del mondo popolare. La trovata artigiana diviene rivoluzione artistica, in nuovissime forme e nuovissimi contenuti, proprio perché per la prima volta, sotto la spinta di circostanze storiche
- la rinunzia, anzi la ribellione allo stato subalterno in cui le classi popolari credevano fin allora di venir condannate a perpetuità - anche l’artigiano afferma una sua visione indipendente da qualsiasi
volontà di mimèsi delle classi superiori (.....)
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FERDINANDO TAVIANI
(.....) Critici e storici confondono spesso la particolare cultura degli attori, degli specialisti nell’artigianato degli
spettacoli, i loro usi e costumi, il loro sapere, le loro categorie mentali e le loro strategie di sopravvivenza con gli usi e costumi, la mentalità e le strategie della cosiddetta cultura “popolare”... Non è la
cultura folclorica quella in cui Viviani fu immerso nell’infanzia e nell’adolescenza, ma la cultura del “popolo degli attori”. Quest’ultima era sì legata a usi e costumi regionali e cittadini, è sì vernacolare,
spesso ristretta ad un orizzonte limitatissimo, ma aveva sempre anche una dimensione nazionale ed internazionale. Comuni nel panorama internazionale erano i mezzi di produzione (questo valeva sia per una forma
di spettacolo “minore” come il Varietà, sia - all’altro estremo - per la forma più rispettata: l’Opera lirica); internazionale era il sistema delle “vedettes” e delle tournées; internazionali erano le formule di
successo, certi tipi di comicità, certe trovate, certe abilità che si trasmettevano da un teatro all’altro. Nulla vi è di più internazionale, per l’intreccio di uomini di diverse provenienze e culture, dello
spettacolo “popolare” per eccellenza: il circo (.....) Per povero che potesse essere, per ignorante che fosse, un attore di professione non condivideva mai interamente le credenze, la mentalità, la mitologia e
la scansione del tempo della gente fra cui viveva. Era sempre in qualche modo uno “straniero”. Anche quando aveva la stessa lingua, le stesse origini, gli stessi modi di vita all’interno della famiglia, del
quartiere, del paese, il suo non era mai un lavoro come un altro. Il fatto stesso d’aver scelto la condizione d’attore, o d’esservi nato, lo distaccava da coloro che gli attori - simili in questo alle
altre caste separate, militari e clero - chiamavano i “borghesi” (.....) Attraverso i riassunti, le opere di Viviani sembrano molto più legate ai luoghi comuni su Napoli e molto più sentimentali di quanto siano
in realtà. Viviani infatti sfrutta i luoghi comuni, si serve del sentimentalismo, ma senza aderirvi: essi non sono il punto d’arrivo, ma i materiali della sua arte. Il punto d’arrivo è una polifonia
precisissima, uno sguardo acuto che non si illude e non lascia allo spettatore l’effimera consolazione del lieto fine. Così come la musica di Viviani non accetta la sonorità piena dell’orchestrazione come si deve e
mantiene asimmetrie spezzature e dissonanze tipiche della musica non colta, anche la sua drammaturgia non perde mai il sapore acre della risata e del disincanto sofferente (.....) Viviani bandì dai suoi
spettacoli - che agli spettatori parvero spesso liberamente improvvisati - ogni forma d’improvvisazione. Quella libertà d’azione, quei dialoghi che si intersecavano secondo un ritmo organico e “naturale”,
quella miriade di piccole azioni comiche che rendevano lo spettacolo sempre vivo e sorprendente, quell’armonia di voci contrastanti, di toni alti e sommessi, quegli improvvisi silenzi che punteggiavano
l’incombere dei destini tragici, i sapienti trapassi dalla prosa al canto, tutto questo era innanzi tutto rigorosa scrittura, teatro pensato e fissato sulla carta: testo. Dire che Viviani più che “scrittore” di
teatro fu attore e direttore di spettacoli vuol dire ignorare che cosa sia e che cosa possa essere la scrittura teatrale al culmine della propria energia e del proprio rigore (.....)
FRANCA ANGELINI
(.....) La “cornice” drammatica è strutturalmente simile a quella in cui si inseriscono i numeri di varietà; si tratta infatti
di un seguito di scene, più o meno legate, che “colgono” tipi e situazioni. Quel che è nuovo sono gli ambienti, i tipi e le situazioni rappresentate da Raffaele Viviani: la città di Napoli è sostanzialmente la
protagonista, ma senza aspetti oleografici, senza luoghi comuni, senza false consolazioni. La sua è una città enorme, tribolata, una grande metropoli marina che vive di notte, nei caffè, nei vicoli, nelle
stazioni, al porto; una città più notturna che solare, più espressionisticamente rilevata in bianco e nero che ottimisticamente colorata secondo i moduli delle cartoline illustrate (.....) La grande lezione di
Viviani è forse proprio in questo suo tipo di scrittura scenica, aperta e quindi moltiplicabile con ulteriori entrate e macchiette; una scrittura sostanzialmente non veristica, non naturalistica; senza trama se
non espressiva e rappresentativa, senza tesi da dimostrare, senza leggi esterne alla rappresentazione della sua propria presenza in scena (.....)
ALBERTO CECCHI
(.....) Viviani sceglie per ambiente non la piccola borghesia, cara ai due Scarpetta, padre e figlio, ma il popolo, l’autentico
popolo dei pescatori, dei vagabondi, degli scugnizzi” e questa differenza parte dall’ambientazione scenica; per annotare che essa è sempre collocata in luoghi aperti e ventilati; “mentre lo sfondo abituale degli
altri attori dialettali è quasi sempre la parete di una casa borghese con la tavola da pranzo nel mezzo (.....)
ALBERTO ASOR ROSA
(.....) ma il tratto più caratteristico del Viviani, per cui egli si distingue originalmente dagli altri populisti anche
dialettali del Novecento italiano, è l’attenzione da lui prestata ai vari ambienti e aspetti del lavoro. Restiamo anche in questo caso dentro i confini di un mondo generico, di cui sono protagonisti pescatori,
mastriferrai, muratori, braccianti, manovalanza di infimo ordine. Il lavoro in questo ordine di cose non costituisce mai un aspetto autonomo e sicuro della vita umana, ma è sempre parente prossimo della miseria e della
morte, a cui è stretto da una disperata e irrimediabile
contiguità (.....)
EDUARDO SCARPETTA
“ Quelle brevi rappresentazioni, non si ascoltano, ma si vivono.
E si vivono perché prima di voi, prima ancora degli spettatori le ha vissute, le ha sentite l’autore; e le ha infine riprodotte
con quella sincerità e con quella semplicità che costituiscono il tono degli artisti veramente sommi ”.
“Il riso addita e scopre sempre una piaga sociale! E un piccolo mondo in cui la comicità più schietta si fonde con
l’osservazione arguta e profonda, e l’ambiente dei bassifondi napoletani palpita nel più lieve dettaglio scenico. Sono tocchi di colore, sono scorci di figure umane, sono brandelli di vita messi a nudo.
Si ride anche qui, ma fra il riso spunta, ad un tratto, cocente una lagrima; e il dramma infine prorompe con un crescendo ed una
chiusa efficacissima ”.
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CRESCENZO MAZZA
Viviani non è un anarchico, perché tiene fin troppo conto delle conquiste insostituibili della civiltà, come la famiglia, la
collettività umana e il valore delle leggi; non è un materialista, poiché tutta la sua opera spazia nella sfera di penombra fra realtà e fantasia, dove anche se, con meno coerenza, con maggiore libertà però si
muovono i suoi personaggi. Non è uno scettico, non è un rinunziatario, ma non è soprattutto un convenzionalista e un retorico, come finiscono per essere tutti coloro che combattono il convenzionalismo e la
retorica. La verità è, che egli percepisce, nelle zone di più desolato intimismo o di più decorosa povertà, le reazioni che l’uomo oppone al proprio scadimento morale.
GINO CAPRIOLO
Una “ musica ” di ciechi, e cioè un’orchestrina girovaga e mendicante che alterna, a celebri canzoni napoletane, teneri valzer
d’operetta viennese. Tra i suonatori, il contrabbassista, “ Don ” Ferdinando, che ha una moglie, Nannina, incontrata e sposata per caso. Com’è Nannina? Don Ferdinando non lo sa. Lei dice d’esser bella, ed egli
ama crederle, fin ad esser preso da gelosia per un certo Alfonso, impresario e accompagnatore della piccola “troupe” miserabile. La gelosia, e il dramma, divampano improvvisi. Don Ferdinando tenta di scacciare
la donna, di abbandonare la “musica”, ma a ricondurlo sulla via della ragione è l’umile e tardiva confessione della donna, d’essere brutta, di non poter essere amata e desiderata da nessuno che non sia cieco
come lui. E’ tutto. Ma la potenza di questo atto unico consiste nel descrivere una immensa tragedia diventata abitudine. Come questi ciechi, e coloro che gli vivono intorno, parlano della loro sventura, con
quale naturalezza, con quale indifferenza!
E non un attimo lo scrittore indulge al patetico; tutto, nell’atto, è esasperante, tutto mirabilmente sgradevole, I ciechi di
Maeterlink appaiono subito di maniera.
Reputo questa piccola opera tra le più significanti di una intelligenza terribile come quella di Raffaele Viviani: il mondo
guardato attraverso il freddo vetro dei suoi occhi, in fondo ai quali mai si scorgeva, e sempre s’intuiva, la continua tempesta del riso e delle lacrime.
GIUSEPPE MAROTTA
Sui palcoscenici dell’“Umberto” e della “Fenice”, per decenni, egli non indossò personaggi, indossò un popolo: e chiunque non
fosse ignoto ai vicoli, estraneo alla sostanza buffa e tragica di Napoli, si riconobbe, si amò e si compianse in lui.
ROBERTO MINERVINI
Sono davvero memorabili, in questo e negli altri atti unici, le figure da lui riprodotte dal vero e trasformate, nella finzione
scenica, dal potere della sua sofferenza di uomo, dalla
sua vibrante sensibilità lirica, dalle sue ansie di inappagato ed inappagabile uomo di teatro, “fenomeno”, anzi, attivo,
dinamico e infaticabile di una teatralità che può trovare riscontro (non raffronto nel genere) solo in quella di Ettore Petrolini, per il grado della intensità, della comunicativa e dei risultati.
LEONIDA REPACI
Viviani nelle sue opere più valide è riuscito a creare intorno al suo affresco di vita napoletana una classicità, e una
universalità che superano la bozzettistica dialettale, è riuscito a creare lo spazio lirico in cui i personaggi si prolungano e interiorizzano come la voce nell’eco, è riuscito ad arricchire il suo teatro di
significati allusivi, di sospensioni intimiste, di capovolgimenti dialettici, dimostrando così di sapere imboccare le direzioni in cui si muove il teatro moderno.
SILVIO D’AMICO
Il suo scugnizzo, il suo vagabondo, non sono un attore che rifà lo scugnizzo, lo spazzino o il vagabondo, sono senz’altro
scugnizzo e vagabondo quintessenziati e fissati per l’eternità. Poi dalle note comiche, e da quelle propriamente umoristiche, risale al dramma vero; e qui, forse per uno di quei prodigi che non sappiamo se siano
concessi ad altri artisti oltre i nostri prepotenti italiani, attinge la tragedia.
CARLO BERNARI
Col suo teatro Viviani non si limita ad abbattere “ le pareti ” dell’intimità borghese, in cui Cecov, ad esempio s’era aggirato
da maestro, ma abbatte la stessa problematica borghese, che il nostro teatro (ed anche il teatro dialettale) aveva piuttosto fiaccamente ereditato dal naturalismo. Il dialetto stesso non si limita più ad essere
un mezzo per far sorridere le platee ai guai che capitano al piccolo borghese don Felice Sciosciammocca - ultima maschera del qualunquismo pulcinellesco, -ma diventa un mezzo di espressione che assurge a valore
e a dignità di lingua.
ALBERTO SPAINI
Nella pagina aperta a caso, come poi in tutti i lavori che ho letto, per ogni battuta c’è l’indicazione dell’animo,
dell’intonazione della voce, della mimica, dei movimenti attraverso la scena, con cui dev’essere detta. Il personaggio più insignificante non è abbandonato un istante a se stesso; prima di incominciare le prove
di un lavoro Viviani sa già esattamente quanti passi ognuno farà, dove si metterà a sedere, quando farà il gesto di meravigliarsi e quando si darà l’aria del finto tonto. Dispone costantemente d’un coro (e con
che meravigliose voci, parlano, e come sono orchestrati!) e i singoli coristi si comportano in scena come se fossero primi attori; almeno Viviani non fa nessuna differenza nell’importanza di questi e di quelli.
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