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Viviani

 IL TEATRO DI VIVIANI - TESTIMONIANZE CRITICHE

- Banchetto in onore di Nemirovic Dancenko, fondatore del Teatro d’Arte di Mosca (Torino, 1931).
  Da sinistra: Olivieri, Raffaele Viviani, Tatiana Pavlova,Antonio Gandusio, Elsa Merlini, Nemirovic Dancenko.
- Viviani in camerino (1933).
- Viviani davanti al Teatro Alfieri di Torino (1939).

 

EDUARDO DE FILIPPO

Milleottocentonovantatre. Un piccolo teatro in un quartiere povero di Napoli, uno di quei teatrini di cui Viviani scrisse nelle sue memorie: “Qui si riuniscono unicamente scaricatori del porto, marinai di velieri, soldati di dogana, popolino del rione e prostitute minime; nella sala annebbiata di fumo di sigarette, sigari e pipe di creta risuona la voce inesistente del venditore di acqua e anice, di pasticcetti e semi di zucca abbrustolisti che ogni volta che cala la tela o addirittura durante l’atto incita gli spettatori: “Comprate! - e a questo richiamo subito rispondono i ragazzini della ‘piccionaia’: “duie centeseme ‘e semmente!”. In uno di questi teatrini - al San carlino a Foria - all’età di 4 anni e mezzo, debuttò Raffaele Viviani come sostituto di un ‘tenore comico’ improvvisamente ammalatosi. Il debutto riscosse grande successo e per alcuni mesi consecutivi il ragazzo cantò in teatro indossando in scena un piccolo frac di velluto verde con cravatta a farfalla e cilindro. Quando Raffaele compì dodici anni il padre che lavorava al San Carlino come vestiarista morì, lasciando la famiglia in miseria.

Dopo la morte del padre il ragazzo dovette combattere con la miseria: per vivere era costretto a lavorare molto e senza tregua intervenendo a feste, a matrimoni di città e di campagna, suonando nelle compagnie girovaghe. Ma nonostante questa estenuante, ininterrotta lotta contro la fame e la miseria, questa lotta in cui non conosceva riposo, Viviani non perse la naturale gioia di vivere e tracciò la sua strada decidendo di darsi al varietà che in quell’epoca era il genere teatrale più popolare, ma anche più difficile.

Aveva 16 anni quando vide al teatro “Umberto I” il famoso attore Peppino Villani che interpretava la ‘macchietta’ “Lo scugnizzo” scritta dal poeta Capurro e questo spettacolo lo affascinò.

“Capii - scrisse nelle sue memorie - che essa avrebbe potuto trovare nella mia interpretazione le corde necessarie perché vibrasse tutta di vita reale; pensai che io avrei potuto dare a quella creatura lacera e scarna i palpiti esili del cuore, la dolcezza dell’anima, la mitezza monellesca del temperamento, perché quegli esseri mi erano vissuti accanto e ne avevo non studiate ma immagazzinate tutte le caratteristiche”.

Ed egli effettivamente creò il personaggio del vero scugnizzo.

Mentre Villani aveva rappresentato lo scugnizzo in maniera superficiale e retorica, lo scugnizzo di Viviani, prescindendo dai gusti preconcetti dello spettatore borghese, era invece un uomo vivo, che non solo colpiva, ma affascinava il pubblico. Nel ruolo di questo sorprendente personaggio Viviani entrò nel magico mondo del caffé concerto.

I suoi predecessori erano superbi attori quali Petrolini, con il quale Viviani strinse una salda amicizia, Manara, Cuttica, Molinari e Gill. Essi erano riusciti talvolta a raggiungere nella loro interpretazione un alto livello artistico e a riflettere nei loro personaggi la dura vita del popolo. Cuttica per esempio in ogni suo numero parodiava l’esercito, Petrolini denunciava il conformismo del potere, dei piccoli fanatici dittatori e per questo era ben nota la forza del loro talento. Ma gli spettatori della platea in maggioranza ricchi borghesi, non ancora sospettosi, pur se tanto vicini erano i mutamenti sociali, ridevano ed applaudivano con entusiasmo.

Essi accettavano le maligne parodie di Cuttica come vuote allegre scenette, senza comprendere che queste erano l’espressione del crescente odio del popolo per l’ottusità dei militari; li divertivano le arguzie e la mimica di Petrolini ma non capivano che l’attore metteva in ridicolo il loro mondo già superato.

Tra questi prestigiosi pittori della vita si pose trionfalmente Viviani, portò con sé le colorate, tristi figure dei poveri che aveva preso dalla vita autentica del suo popolo: Lo scugnizzo, Il pizzaiolo, ‘O tammurraro, L’acquaiolo, L’ubriaco, Il capraro, Il vetturino... I suoi eroi, circondati da una realtà vergognosa, erano uomini vivi.

Essi ridevano, piangevano, faticavano senza tregua, soffrivano la fame ed il freddo, amavano ed odiavano, ma il talento artistico e professionale di Viviani li trasformava in superbe opere d’arte. Ognuno di questi uomini viveva sulla scena 45 minuti, insieme con tutti i partner che partecipano alla storia che raccontava del personaggio principale. Tutti questi li interpretava Viviani che da solo sapeva dare l’impressione che la scena fosse brulicante di una folla vera. Ora era la donna del popolo che gridava al mondo la sua miseria, ora il misero accattone, che tendeva le mani a chiedere l’elemosina; ora lo sfruttatore che disponeva della infelice prostituta come di una sua proprietà privata.

Ancora non era cominciata la guerra, ancora in Russia non era scoppiata la Grande Rivoluzione d’Ottobre ed io, per quanto adolescente, non sospettavo di quanto tosse gravido il mondo di avvenimenti, e non ero in grado di penetrare nella vera essenza delle accuse che Viviani lanciava dalla scena.

Il decreto emesso dal Ministero degli Interni dopo la disfatta di Caporetto proibì gli spettacoli di varietà che, secondo le autorità, erano troppo futili e frivoli; e, come tali, “minavano lo spirito combattivo dei soldati”, che battagliavano e morivano al fronte. In questo modo, i migliori attori dei caffé-concerto si ritrovarono sulla strada. Bisognava trovare una via di uscita a questa situazione, in modo che si potesse continuare a recitare. Il decreto non vietava l’attività delle compagnie drammatiche e di operetta.

Presto Viviani scrisse e mise in scena un atto unico ‘O Vico introducendo in questo alcuni quadri che già aveva interpretato nel varietà con la differenza che ora I’acquaiolo, il guappo, lo spazzino, erano circondati non da una folla immaginaria ma da altri attori che interpretavano vari personaggi. I dialoghi, i testi delle canzoni e la musica li scrisse lo stesso Viviani.

Nel 1917 al teatro ‘Umberto’ si tenne la prima de “‘O vico”. Il successo fu così clamoroso che l’impresario mise a disposizione di Viviani un locale a tempo indeterminato. In questo teatro dunque Viviani lavorò con successo per quattro anni.

Scrisse sedici atti unici tra i quali si annoverano autentici capolavori come “Tuledo ‘e notte”, “Don Giacinto”, “‘O spusalizio”.

Insieme con lui recitavano la sorella Luisella, Tecla Scarano, Gigi Pisano ed altri eccellenti attori, che costituivano la famosa compagnia drammatico-musicale di Raffaele Viviani. Nonostante che gli spettatori di Viviani ottenessero un enorme successo di pubblico, non furono capiti dalla critica: divisa come era tra il teatro d’arte di Di Giacomo ed il teatro farsesco di Scarpetta. Più tardi nel 1919 dopo la prima rappresentazione di “Festa di Piedigrotta” Matilde Serao, la nota scrittrice napoletana, scrisse nel giornale “Il giorno” un articolo su questo spettacolo, di cui ammirava l’autentico realismo che si avvertiva in quel dialetto chiassoso, attraverso una folla, nella quale erano fusi autentici caratteri. Ella scrisse “Cosa succede nella vita teatrale di Napoli? Da una parte il palese o nascosto insuccesso dei teatri d’arte ormai logori il cui repertorio consiste in pochi lavori che non si sa bene di cosa parlino, dall’altra la moda dei rifacimenti drammatici. In questo deserto il teatro di Viviani presto trova la sua strada. Ed esso andrà lontano perché si rivolge ad uno spettatore capace di comprendere ed apprezzare le nuove forme ed un più alto livello di teatro, in continua evoluzione”.

Il teatro “Umberto” vide così nuovi spettatori del popolo e Viviani decise di aprire con essi un continuo dialogo. I migliori rappresentanti della critica teatrale non tardarono a condividere il giudizio della Serao. Il successo di pubblico ed il riconoscimento della critica spinsero lo scrittore a creare opere con un contenuto sociale più accentuato. Egli scrive una serie di commedie in tre atti dove raggiunge la piena maturità artistica. Ma ecco che salì al potere il fascismo che annientava brutalmente tutto ciò che di positivo era nella vita italiana. Chiunque fosse apertamente simpatizzante degli strati più bassi della popolazione era considerato denigratore della nazione ed antipatriota. Viviani, il più alto, il più puro poeta del popolo napoletano fu boicottato. Le porte di Milano, la capitale teatrale d’Italia, gli furono precluse; sul suo cammino sorsero una quantità di ostacoli. L’avversione aperta del governo sempre più allontanava da lui gli spettatori; alcuni smisero di andare ai suoi spettacoli perché essi stessi erano entrati nei quadri fascisti, altri perché avevano paura del regime. Ma né le persecuzioni, né le platee vuote poterono soffocare la forza artistica dello scrittore. In “Zingari” che molti considerano il suo capolavoro, Viviani crea un ampio quadro di vita zingaresca - un mondo pregno di povertà e di orgoglio, di fame e di passione, di amore, d’odio, di tristezza infinita -. A “Zingari” seguì “Morte di carnevale”, un’opera di alta forza teatrale, che in molti passi ricorda Molière; “‘O guappo ‘e cartone”, in cui Viviani difende un pregiudicato che sogna una vita onesta e apertamente accusa la società che gli impedisce di condurla; “L’ultimo scugnizzo”, il racconto del triste destino di Antonio Esposito. Ma purtroppo Viviani aveva un altro nemico terribile, più feroce e crudele della dittatura fascista o della freddezza del pubblico: la malattia. A 54 anni comparvero in lui i primi sintomi di una paralisi progressiva, che doveva portarlo alla tomba.

Nonostante la malattia e la stanchezza, egli continuò a lavorare e compose una delle sue migliori opere: “Muratori”. Questa stupenda commedia, tra le ultime scritte dal drammaturgo, Viviani non poté interpretarla. La memoria peggiorava, gli riusciva sempre più difficile pronunciare il testo. Subito dopo la liberazione io stesso fui testimone di una scena che si svolse in un piccolo Teatro di Napoli; uno dei pochi non occupati dagli americani, dove, grazie alla sua forza di volontà e al tenace attaccamento alla vita, Viviani con uno sforzo eccessivo per le sue condizioni fisiche, riunì la sua ultima compagnia. Gli spettatori della platea, tutta esaurita, con ansia aspettavano di vedere il loro idolo. I napoletani gremirono la piccola sala per sentire ancora la voce irata dell’artista rivolgersi contro il regime che stava crollando e che per 20 anni con tutte le sue forze aveva cercato di ridurlo al silenzio.

Nel recitare una delle sue composizioni, Viviani dimenticò il testo e si fermò. Dopo un penoso silenzio, Viviani ricominciò a recitare, ma si interruppe allo stesso punto, e non gli riuscì di finire di recitare i versi. Tutti in sala compresero il dramma della situazione e non un solo napoletano batté ciglio. Gli occhi dell’artista con le pupille immobili per la meraviglia e la supplica, il pallore del viso, le labbra inaridite, tutto testimoniava di come stesse male. Verso la fine uno degli spettatori non poté più trattenersi e gridò: “Raffaele, devi curarti!”. Il pubblico si allontanò in silenzio.

Da allora fino al 1950, anno in cui morì, Viviani non scrisse più e non comparve più in pubblico.

Usciva dalla scena della vita un artista singolare, un instancabile lavoratore, il pìù grande rappresentante del teatro della nostra epoca.

- Viviani con Onorato e Ettore Petrolini (Castelgandolf, 1931).
- Viviani a Torino con Luisella Viviani (1927).
- Nello studio di Vincenzo Gemito per il busto che lo scultore gli dedicò nel 1926.
   L’opera si trova attualmente nel Museo di Capodimonte a Napoli.

 

CESARE GIULIO VIOLA

C’era - allora - nella villa Garibaldi, a Taranto, una baracca di legno, e si chiamava Sala Marconi.

Che avesse a che vedere Marconi con gli spettacoli che, dalle sette della sera alla mezzanotte, si seguivano “continuati,, in quella sala, non saprei dire. Forse il segreto di quel nome stava nella lampada elettrica, che, infissa sull’ingresso, al centro d’un piatto smaltato, sfidava col nitore della sua incandescenza la gialla etisia dei fanali a gas che, nella villa e per la città, pareva non servissero a far lume ma a rivelare il buio. Fu, in quella sala, che vidi per la prima volta Viviani.

Era uno dei tanti numeri di “Caffè-Concerto”. Il “Marconi,, ne allineava ogni sera una folta serie: piovevano nella nostra città, le “stelle” di terza grandezza che, a Taranto, si mutavano in soli splendenti, i macchiettisti, le divette, le fini dicitrici, le cantanti internazionali e i prestigiatori. Frequentava la sala gran folla di marescialli, di marinari, di studenti. Anche si affacciavano qualche volta, sul tardi, i viveurs, e si portavano a cena le “sciantose” meno sventurate.

Viviani chiudeva ogni sera lo spettacolo. Erano passati sotto i nostri occhi per più d’un’ora maglioni rosei, gambe tornite, flosce piume di struzzo, vestarelle corte a corolla rovesciata tutte pagliuzze luccicanti, e veli, molti veli sfrangiati. E in ultimo, ecco, si presentava lui, il povero: Viviani.

A vederlo, si gridava “lo scugnizzo! lo scugnizzo!”... e non si era paghi finché Viviani non fosse tornato alla ribalta, con i gomiti che gli foravano le maniche, i piedi nudi, i calzoni a brandelli, e una faccia patita sotto la falda di un cappelluccio a pan di zucchero, che pareva tolto ai rifiuti della strada. Quando lo scugnizzo, vizioso precoce, cavava dalle tasche una cicca per una boccata di fumo, piovevano sulla ribalta i soldini. E Viviani li raccoglieva, e pareva li adunasse a tintinnare nel suo cappelluccio per la fame di tutti quelli che l’avevano preceduto. Da allora, se lo rivedo nella memoria, o se m’accade d’assistere oggi ad una delle sue recite fortunate, il mio spirito si riconduce a quella prima impressione giovanile.

Non so perché, lo vedo legato a un mondo che è più dell’anteguerra che nostro: contro il quale batte la nuova vita e il piccone, un mondo da “risanamento”, che sta per scomparire e che si rifugia, premuto da quella che si chiama civiltà, ad asserragliarsi nei quartieri dove il costume più saldamente ha fitto le radici della tradizione. Un mondo che sa di stampa antica, di rievocazione d’un tempo che fu, di nostalgica cartolina illustrata. E - strano - per una spontanea associazione visiva, mi par di ritrovare in lui “risofferta” la pittura napoletana dell’Ottocento. Come se egli abbia colti i suoi modelli, per un identico interesse d’osservazione, dalle stesse creature e dagli stessi luoghi, che, per una diversa scala di valori, attrassero gli occhi del Mancini, del Torna, dei Dalbono, del Pirandello, eccetera.

Viviani, infatti, a pensarci, lo ritrovate tutto nelle tele di quei maestri, che sono a volte malinconici, e in ciò è il fondo della loro napoletanità più genuina, o chiassosi, e vogliono ubriacarsi di luce e di suoni quasi per redimersi dalla loro tristezza, e per convalidare una leggenda di festosità popolaresca, che il mondo ha appiccicato a Napoli, come un’etichetta insopprimibile.

Quel monello di Mancini che guarda ansioso i residui del banchetto carnevalesco, e quel suo prevetariello, emaciato, le ceree mani strette dal rosario, figlio forse d’una modesta famiglia che lo destina al sacerdozio, e lui chi sa a quali strade di libertà pensa, si ricongiungono agli umili che Viviani illustra, ai toccati da Dio, agli offesi. Dalbono gli presta pescatori e belle pacchiane di Monte Vergine. Tornano certi suoi tisici spasimanti. Pratella i fondali per le rievocazioni della Napoli che non c’è più. E Gigante, anche Gigante, gli dona i suoi paesaggi, rupi a sghimbescio, ciuffi d’alberi, acque scogliose.

Istintivamente forse io son tratto a parlare di pittura, per definire pittoresca l’arte del Viviani; arte di colore; di orizzonte, di sole e di luna: arte all’aperto, napoletanissima quindi, poiché Napoli vive nella strada, che è folla, è movimento e coro. Bisognerà., dunque, guardarla quest’arte, per meglio precisarla, con un interesse alla coralità. Basta, infatti, rievocarla nei suoi segni più caratteristici per accorgersi che, anche a volerlo, dal Teatro di cui è attore e autore il Viviani, non si può trarre alla nostra osservazione un solo protagonista, nel senso che si usa dare comunemente al personaggio predominante d’un’opera drammatica. Più si avvalora il nostro concetto di coralità se si osserva che nelle sue commedie, al luogo di far convergere l’attenzione degli spettatori verso un fuoco centrale in cui uno soltanto emerga, pare che invece si serva d’una luce diffusa che in ogni personaggio egualmente rifulga, al punto che in una stessa commedia spesso egli appare sotto spoglie diverse, quasi che non voglia soverchiare con la sua presenza la vita dei suoi interlocutori. Può anche darsi che ciò derivi da una ambizione di bravura per la quale l’attore, con le sue metamorfosi a vista, dà il segno della sua versatilità. Ciò a noi non importa: restiamo alla impostazione e allo sviluppo di quella vita che egli realizza sulla scena. A vederlo in una stessa sera passare dalla quasi faunesca ed ebra spavalderia del capraio camorrista, alla sorda e contratta irosità del Suonatore di contrabbasso ( nello Sposalizio), ci par d’assistere a un imbroglio dello stato civile. E invece è Viviani che si mette a servizio del Coro. Si cancella per riformarsi: assomiglia, in questo, a quel personaggio leggendario, che si ricongiunge nella tradizione al Dio Lare, e che a Napoli chiamano Zi’ munaciello. Appare questi, nella casa partenopea, variando vesti, voce, atteggiamento: ora frate, ora bimbo, ora brigante calabrese coi cappello a punta. E non ha una sua vita, ma partecipa della vita di tutti. Nasce dalle cose. Come dalle cose, credo, nascono le commedie di Viviani. Ecco una piazza. E, forse, gli appare in un primo tempo deserta, in un’ora notturna, quando la vita dorme dietro le finestre accostate, e dietro i portoni e gli sporti delle botteghe chiuse. La macchia d’un fanale acceso segnerà forse il punto di partenza, un tono lirico, per la vicenda che si animerà in un secondo tempo: il lampionaio passerà per spegnere la luce alla prima alba; a una finestra, allora, apparirà colui che è il primo a levarsi nel quartiere; un ferroviere, in servizio al primo turno, sbucherà da un portoncino ; un canarino canterà da una gabbia al primo sole. Tutti gli elementi del risveglio concorreranno, come per una germinazione spontanea, a formare, successivamente il quadro. Ma ciò che conta è il quadro: non i personaggi, e direi quasi non la vicenda, che vale a cucire, a grossi punti, l’uno all’altro gli episodi. Sulla scena si rinnoverà quel processo che informa una delle più caratteristiche liriche del Viviani, che è anche buon poeta dialettale; “‘O vico”, dove l’autore pare che contempli da una finestra un vicolo, e si compiaccia a descriverlo con una ironica eppure accorata obiettività: e gli uomini e le loro passioni s’equivalgono esteticamente al tavolino del ciabattino, al carretto delle ortaglie, ai panni stesi alla finestra. Macchia, colore, atmosfera. Protagonista è la piazza, la strada, la spiaggia che adunano il popolo: la gioia è di tutti, il dolore è di tutti; protagonista è, dunque, il Coro.

Questo vuol dire aver capito una città; interpretarla, esserne l’autentico rappresentante.

C’è un Teatro napoletano che si onora dei nomi di Torelli, di Di Giacomo, di Bracco, e che in Murolo, in Bovio, in Galdieri ha avuto i suoi felici autori. Ma a questo teatro il Viviani ha raramente aderito, forse per il bisogno istintivo che è in lui di sprigionare, quale che sia la forma, un mondo tipicamente suo, tratto da un’esperienza diretta di vita e di palcoscenico. Se a un teatro si può avvicinare il suo, è a quello della Commedia dell’arte: un po’ fatto a braccia, con l’elastica possibilità di battute estemporanee. I suoi attori, infatti, recitano senza suggeritore, un po’ perché a furia di ripeterle ormai le commedie si son fatte sangue del loro sangue, un po’ per quella libertà a improvvisare che è nel carattere della loro arte.

Accadono in questi quadri di vita napoletana i più strani incontri e miscugli, sicché a volte, con un trapasso che ha per fondo la musica d’un’orchestrina lontana, dalla prosa più quotidiana. si passa ai dialoghi in versi. Sono le trovate di Viviani, che a un rigoroso controllo estetico potrebbero anche non piacere, ma che tuttavia indicano un suo fermento lirico che ha bisogno dei ritmo per esprimersi. Così s’interpolano, a volte, balli e canzoni. E non vuoi dire: siano ben venute le tarantelle, se d’improvviso coronano quella gioiosità che più non troverebbe le parole adeguate e sfocia invece in una frenesia quasi bacchica. E il momento quando Viviani marca la schiena, tende in una rigidità ginnastica le gambe, pone il suo cappello sulle ventitrè, sorride, e con un cortese gesto assume quell’aria di danza, che lo assomiglia stranamente a un fauno: se di sotto la giacchetta attillata e corta gli spuntasse la codina dell’allievo di Pan, non ce ne meraviglieremmo. Comprendo come Gemito, che era greco, godesse a scolpire il suo volto. Quel giorno egli fu nella mitologia. E scopri una delle due facce di Viviani: non avrebbe potuto rivelare l’altra che ci par quella di maggior interesse; ed è la faccia dell’offeso e dell’umiliato: chiusa, pallida, stordita. Bracco, Di Giacomo, Torelli, e gli altri minori, non avrebbero potuto offrirgli quella serie di “disgraziati” che egli, di anno in anno, va buttando sulle tavole del palcoscenico. Non li conoscevano forse, e lui li ha conosciuti: nella sua travagliata vita. E vuol dire che a loro si è accostato con un cristiano amore, se non può più dimenticarli; se ogni sera li riconduce alla ribalta, frammenti del suo passato, compagni di strada. In essi sta la sua umanità: in essi la sua arte più commossa e rivelatrice. Due facce dunque: Diòniso e Cristo. Quello che in Napoli è rimasto di pagano; e quello che di rassegnato dolore pur oggi vive.

Sono i ridicoli, gli scalcagnati, i mentecatti, cui tutti possono dire la loro, bottiglie che capovolte non versano il liquido ma fanno glogò strozzate. Vittime, si sono chiuse in sé e si guardano dentro. Non s’accorgono più dei loro indumenti fuori di moda, spoglie raccogliticce, troppo abbondanti o striminzite, che maschere li fanno, e non più uomini. Non tremano al sorriso che li persegue, fissi in un soliloquio che li macina dentro, e del quale ogni tanto affiora sulle labbra qualche terribile parola. Gente che va lungo i muri, come i ciechi, che temono ad ogni passo d’essere travolti. Isolati, con la loro storia, che è come un tozzo di pane rinsecchito, che si rosicchiano a logorarsi i denti, o come una cicca che non si fa mai secca. Hanno sempre sonno, perché dormono sempre col soprassalto. Hanno una fame che s’è fatta languore, e non consentirebbe loro neppure il conforto d’una scorpacciata. Non guardano al letto che li accoglie, non badano al desco. Vanno, così, come sonnambuli. Per loro la vita è come un destarsi all’insaputa: sull’insidia, sullo spavento, a volte sull’onore. Si dice che il carattere peculiare del napoletano stia nell’esuberanza del gesto e della parola. E ciò, forse, non è detto male. Ed ecco che, come a sovvertire la regola, il più napoletano dei nostri attori, nei tipi della sua predilezione, tocca, una parsimonia che rasenta talvolta la povertà. Viviani raggiunge quasi sempre una levità di tocco, in contrasto con quella che dovrebbe essere la sua natura. E questa ci pare la sua maggiore conquista, e la sua singolarità. Aver saputo  intendere il tumulto del temperamento partenopeo e averlo assoggettato a una pressione intima, per la quale quel poco che di esso che filtra all’esterno basta a rivelarlo per intero, indica una potenza espressiva che si potrebbe chiamare classica. Si è giunti, con lui, all’accenno illuminante, al minimo mezzo, al suggerimento che un baleno può dare d’un’enorme tempesta. Tutto è vigilato, controllato, sofferto in ogni nervo. I toni grigi, in questo figlio del colore, sono quelli che predominano. Ha rinunziato alla luce per l’ombra: perché nell’ombra, che è dolore, è malinconia, è nostalgia, egli ha trovato il suo più puro nutrimento. Al Corteo delle Regioni, bastava che Napoli inviasse Viviani, seguito dai suoi personaggi, e tutti l’avrebbero riconosciuta. Lui, nelle vesti di Petito, col suo cilindro a larghe falde e, dietro, le pacchiane, gli usurai, i caprai, i cocchieri, i bottegai, i pescivendoli, gli zampognari, i suonatori di contrabbasso, i servi sciocchi e le comari ciarliere, le spose candide e le monache di casa, i bravi giovinotti e i giuocatori di zecchinetta, i guappi e gli umiliati - sono tanti i suoi personaggi - ma tutti, con un cuore, che basta toccarlo, perché s’apra.

Ché questa è Napoli, e se Viviani è 1’interprete di Napoli, questa è l’arte dell’autore ed attore Raffaele Viviani.