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Napoli Hotel Excelsior

Viviani

 

- Viviani in “L’Ubriaco” in Osteria di Campagna (1918).
- Viviani in “Lo Scugnizzo” (1904).
- “Ferdinando” (secondo da sinistra) ne “La musica dei ciechi” (1927).

 

ENRICO FIORE

“E TRUOVE ‘nu cemmeniero ‘ncopp’ ‘a città
ca jetta ‘nu poco ‘e fummo pe’ ffatica’!
Ma nun ne truove manco uno sulo:
e si ce sta
coce pasta e fasule!”.
Così cantano i disoccupati di “Festa di Piedigrotta”. E aggiungono:
“E chisto è Napule,
ca tene cante e suone:
nun magna pe fa’ ‘e ccanzone,
nun dorme pe’ s’ ‘e canta’”.

Ecco, potrebbero bastare queste due citazioni a dire, insieme, dell’amore, della precisione e del disincanto - davvero unici - con cui Viviani descrisse Napoli. E, per giunta, raccontano che, avvicinandosi la morte, lui tacque per dodici ore e poi, un attimo prima di spirare, ruppe in un grido altissimo, e ad un tempo dolente e allucinato: “Arapite ‘a fenesta, faciteme vede’ Napule!”.

Forse sì tratta soltanto d’una leggenda. Ma il fatto stesso che sia nata la trasforma, peraltro, nell’ennesima e inconfutabile controprova di ciò che costituisce, credo, la caratteristica decisiva del Viviani autore e, insieme, la sua strenua e sostanziale “diversità” rispetto alla tradizione e, in genere, al milieu poetico e drammaturgico napoletano; voglio dire, insomma, che Raffaele Viviani non fu un poeta “popolare” (almeno nel senso comune dell’aggettivo), ma un intellettuale che ebbe con Napoli un rapporto per l’appunto allucinato e allucinante e da quel rapporto derivò un sistema di segni che, decodificati, preannunciano la follia della moderna città capitalistica.

In breve, Viviani, che pure veniva dalla strada, avvertì sempre di dover scontare una separatezza d’ordine “sovrastrutturale” nel momento in cui trasferiva quella strada sulla scena. Ed è per questo che, altrettanto inevitabilmente, senti Napoli come un incubo. Vedi, in proposito, la poesia “Nuttata chiara”:

“E sto screvenno ‘a ‘n’ora a tiempo perzo: /
‘a ‘n’ora sciupo carta, e ghiengo ‘a penna /
e scrivo e scasso senza fa’ ‘nu vierzo. /
Che tengo ‘ncapa, segatura o vrenna?”.

Da tale “ambiguità” (o, se si preferisce, ambivalenza) discende, del resto, la compresenza nell’opera di Viviani dei modelli e degli stilemi desunti da generi di spettacolo “minori” (quali il varietà e addirittura la sceneggiata) e delle frequenti, per quanto istintive e non calcolate, aperture al dettato delle avanguardie storiche europee, dal futurismo sino all’espressionismo.

Già, la grandezza di Raffaele Viviani sta proprio nel fatto che lui, cosciente della sua “separatezza” d’intellettuale, s’impose - con onestà morale assoluta, e pur essendo nella vita un uomo d’ordine - di non allestire filtri consolatori o demagogici fra la scrittura e il mondo degli emarginati che quella era chiamata a ritrarre. E così, fu il primo a liberare Napoli e i napoletani dalle pastoie di un’oleografia di comodo soffocante e mortificante. Ma, per far questo, serviva, naturalmente, uno strumento espressivo inedito. E Viviani lo trovò in una lingua pressoché “inventata”: un dialetto aspro e feroce, insieme antichissimo e moderno, che non aveva più nulla né dei preziosismi letterari di Di Giacomo né del bozzettismo documentaristico di Ferdinando Russo. Era la lingua vera - la lingua nello stesso tempo immobile (perché ancorata a una plurisecolare condizione di asfittica miseria) e in perenne divenire (perché parlata da uomini che vivevano e lottavano strenuamente per campare la giornata) - dei vicoli e dei “bassi”, la lingua della gente dispersa dagli sventramenti propagandistici del Risanamento. In quale altra lingua, del resto, sarebbe stato possibile cantare l’oscura fatica dei pescatori, che s’alzano prima dell’alba e saltanto a bordo, quando hanno spinto in mare i gozzi, si danno il buongiorno?

 

 

 

 

Si capisce, dunque, la fondamentale

differenza fra il teatro di Raffaele Viviani e quello di Eduardo De Filippo: l’uno è costruito “in esterni” e l’altro “in interni”, l’uno assume come protagonista il coro dei personaggi e l’altro ripropone, pirandellianamente, la crisi del singolo personaggio antagonista nell’universo chiuso del perbenismo piccolo-borghese. E basta, in proposito, un solo esempio. Per raccontare il percorso psicologico e sociale che l’ha condotta dal calore familiare di casa sua alla gelida e anonima schiavitù del bordello, Filumena Marturano ci mette due pagine: i bassi, il sole che non vi entra nemmeno a mezzogiorno, un solo piatto e tante forchette, l’amica che le disse così, così, così... Insomma, proprio la narratività diffusa tipica del teatro borghese o, comunque, “ufficiale”. A Viviani, invece, per raccontare lo stesso percorso bastano - in “Avvertimento” - appena quattro versi:

“I’ ero comm’a vvuie ‘n’angelo ‘e figlia /
e stevo sott’ ‘o sciato ‘emamma mia:/
p’ ‘Abberto me ne jette d’ ‘a famiglia /
e so’ fernuta mmiez’ ‘a Ferrovia”.

Di qui, poi, le sorprendenti, ma inequivocabili, parentele fra il teatro di Viviani e la tragedia classica greca: vedi, per l’appunto, la presenza costante del coro, il rispetto delle tre unità aristoteliche di luogo, tempo e azione, un certo uso della musica e della danza e, infine, la frequente assunzione di una vittima sacrificale.

E di qui, ancora, la commistione fra realismo e sogno, sul filo ell’interdipendenza fra l’evento (la “tyche”) e la dimensione dell’inconoscibile (il destino o la volontà degli dei) che sempre della tragedia classica greca fu propria. In merito, sarebbe sufficiente riflettere, tanto per fare un solo esempio, su “Zingari”, un testo di cui, nel ‘26, Alberto Spaini poté tranquillamente scrivere che “... Sono senza dubbio l’opera teatrale più audace e più moderna che sia stata composta in Italia... Roba che neanche nel calderone di Macbeth”.

Ebbene, “Zingari” è una tragedia che non ha trama. Si potrebbe dire, poniamo, che racconta la storia di uno zingaro ammalato il quale, nella malattia, subisce delle allucinazioni che in seguito lo portano alla morte. Ma tutto ciò, appunto, non è una trama, ma soltanto un modulo di messinscena. In sostanza, “Zingari” appare come una tragedia dell’inconscio, e in quanto tale non è definibile attraverso una psicologia di comportamenti:

giacché gli episodi “esterni” (l’“azione”; per intenderci) non sono che trasposizioni oggettive di una condizione umana in cui vanno a confluire, e si sovrappongono, giusto il reale e il fantastico (o il mitico). Proprio come avvenne, insisto, nella tragedia greca classica.

La differenza, però, è che con Viviani si tratta di teatro classico in senso proletario: e in altri termini, con Viviani accade per la prima volta che lo stesso tipo di problematica e di passioni dei tragici greci sia vissuto non da personaggi nobili, re o cortigiani, ma da personaggi del popolo, appunto - per tornare agli esempi di cui sopra - pescatori o zingari. Viviani, insomma, è un grande poeta tragico proletario.

E, come tale, anticipa quella che sarà la non meno grande e tragica poesia civile di Pasolini. Fu per questo, infatti, che don Raffaele riuscì a consegnarci - attraverso Samuele, il solitario clown di “Circo equestre Sgueglia” - il più solenne e fraterno messaggio che mai si sia levato da un palcoscenico per conto di Napoli, il messaggio di una speranza irrinunciabilmente legata alla dignità del lavoro: “Donna Zeno’, nuie simmo dduie pizzeche ‘e povere, ca ‘nu sciuscio ce sperde. Chi ce vede? Chi ce nota? Che rappresentammo? Tenimmo, sì, ddoie bell’aneme, ma ‘e tenimmo

‘nzerrate ‘mpietto, chi ‘e ssape?

E quanno jesciarranno, nuie nun ce

starrammo cchiù... Nuie sultanto però ca st’aneme ‘e ssapimmo e sentimmo ca soffrono, ce avimm’a tene’ cura, ll’avimm’a purta’ passianno p’ ‘e ffa’ distrarre, p’ ‘e fa’ piglia’ aria... ‘A mia, ‘a vedite? Se distrae accussì, faticanno, facenno ‘e ggioche pe’ copp’ ‘a sbarra... Sunate! Sunate!”.

Sì, la musica. Occorre intendere e praticare la parola di Viviani non sul piano dell’ideologia (o, peggio, del verismo di superficie) ma su quello del simbolo e della metafora: e, quindi, adoperarla - in sede di “rappresentazione” - in quanto suono e ritmo.

Giacché fu una parola che aggiunse alla tradizione affabulatrice dei leggendari “maste cantature” e “maste abballature”, alla tradizione dei Velardiniello e dei Pezzillo, la carica di rabbia e di rivolta che prorompe, inesorabile, dall’esistenza medesima, dal puro e semplice stillicidio dei giorni.