Trailer
Napoli Hotel Excelsior

scene I costumi I locandina I testo I i vostri commenti Lo Spettacolo

IN NOME DEGLI ESCLUSI di Enrico Fiore

Nel teatro napoletano, Eduardo De Filippo e Raffaele Viviani si collocano su versanti diametralmente opposti. E, di conseguenza, radicali e irriducibili risultano le differenze fra i loro testi: riassumendo, quelli di De Filippo sono costruiti “in interni” e ripropongono, pirandellianamente, la crisi del singolo personaggio antagonista nell’universo chiuso del perbenismo piccolo-borghese, mentre quelli di Viviani sono costruiti “in esterni” e assumono come protagonista il coro dei personaggi visti, nell’insieme, come l’inscindibile collettività popolare.

In altri termini, ciò che costituisce la caratteristica decisiva dell’autore Viviani (e, ad un tempo, la sua strenua e sostanziale “diversità” rispetto alla tradizione e, in genere, al milieu poetico e drammaturgico napoletano) è la precisa e irrinunciabile scelta di campo a favore di quelli che oggi si chiamerebbero “esclusi”, vale a dire del proletariato marginale e del sottoproletariato. E niente potrebbe dimostrarlo meglio dello spettacolo che vi viene presentato, in cui Tato Russo - sotto il titolo complessivo “Napoli Hotel Excelsior” - riunisce, di Viviani, i due atti unici “Scugnizzo (Via Partenope)” e “La musica dei ciechi”.

L’Excelsior è uno degli alberghi di lusso del lungomare napoletano, e la sua facciata diventa qui l’emblema della barriera, esistenziale e sociale insieme, che separa la nobiltà esangue e la borghesia di rapina che danzano dietro le bianche tende di quell’albergo, un’“isola” immemore e sorda, dal brulichìo sanguigno e partecipe del mondo di diseredati che s’affolla nella strada. E da che parte stia Viviani, basterebbe a dimostrarlo il fatto che - mentre nel canto iniziale i partecipanti alla festa dell’Excelsior vengono designati con termini chiaramente dispregiativi e sarcastici (“’a signuramma”1, “’a retena d’ ‘e checche”2, “’a roba fina”3) - la didascalia conclusiva sottolinea il gesto generoso dello Scugnizzo che cede alla povera Bianchina, “intirizzita dal freddo”, il plaid regalatogli da un turista americano.

Giustamente, quindi, Tato Russo “moltiplica” tale contrapposizione, aggiungendo al testo originale di “Scugnizzo” tutta una serie di brani tratti da altri testi di Viviani (“Via Toledo di notte”, “Piazza Ferrovia”, “Osteria di campagna”, “Scalo marittimo”, “Santa Lucia nova”, “Caffè di notte e giorno”) e che affiancano, a quello del viveur cocainomane Bebé, rappresentativi e risentiti personaggi della strada - come “l’Ubriaco”, “’o Cantante”, “il Magnetizzatore” - che sono parenti strettissimi dell’impietoso cocchiere Papele.

Il tutto - sul filo di un continuo richiamo a una condizione d’inutile attesa, di cui costituisce un’evidente metafora il pescatore Costante che non pesca mai niente - corre a coagularsi ed esaltarsi nella splendida invenzione registica che nel finale di “Scugnizzo” accoppia - nell’ambito di una lancinante e allucinante specularità per contrasto - il sonno d’evasione coltivato da Bebé (“E così viene assopita / la miseria della vita”) e la vigile “animalità” dello Scugnizzo medesimo (“Fronn’ ‘e limone... a durmi’ ‘nterra / so’ abbituato... so’ nu guaglione. / Però si pure dormo sto’ sempe scetato”4).

Fortissimi, d’altronde, sono i legami fra i due atti unici che compongono questo spettacolo. “La musica dei ciechi” si svolge nel Borgo Marinari del rione di Santa Lucia, proprio di fronte all’Hotel Excelsior. E del resto “Scugnizzo”, scritto nel 1918, sembra una vera e propria anticipazione del secondo testo, datato 1928: vi compaiono, infatti, un mendicante cieco (davvero tremenda la sua battuta rivolta al cocchiere: “Eh, te pare ca ‘e signure, cu tanta luce, ponno penza’ a me che stongo ‘o scuro?”5) e un gruppo di posteggiatori che, l’uno e gli altri, si pongono in tutta evidenza come “antesignani” dei suonatori ambulanti protagonisti de “La musica dei ciechi”.

A proposito di quest’ultimo testo, senz’alcun dubbio uno dei capolavori assoluti del teatro europeo, giova citare l’acuta osservazione che Gino Capriolo fece, introducendolo, nell’antologia vivianea pubblicata dall’Ilte nel ’57: “La potenza di questo atto unico consiste nel descrivere una immensa tragedia diventata abitudine”. Infatti, i suonatori ambulanti ciechi messi in campo da Viviani parlano e si comportano, sempre, come se ci vedessero. Un’“abitudine” che viene annunciata già all’inizio, quando il contrabbassista Ferdinando - al mandolinista Don Antonio, che gli ha chiesto: “Ferdina’... Ma pecché venimmo a suna’ sempe a Santa Lucia?”6 - risponde, con disperazione addirittura blasfema: “P’ ‘a ringrazia’. Chella ce guarda ‘a vista ‘e ll’uocchie”7.

Si tratta di un delirio parossistico, e tanto più doloroso quanto più venato di comicità, che raggiunge l’acme allorché Ferdinando - informato dall’Ostricaro che sua moglie Nannina s’è appartata a parlare con l’impresario Don Alfonso nell’androne del palazzo di fronte - le grida come un ossesso: “T’aggio vista, t’aggio vista!”8. È la logica conseguenza, quel grido, della gelosia, per suo conto del tutto illogica, coltivata dal contrabbassista nei riguardi di una donna che non ha mai visto e che, quindi, non sa come sia fatta.

Toccherà proprio a Nannina, per esprimerci con lo stesso traslato del testo, “aprirgli gli occhi”, con una confessione che, mentre costituisce la più profonda ferita che una donna possa infliggersi, nello stesso tempo mette l’accento su quella necessità di accettarsi ch’è la massima testimonianza di rispetto per la vita: “Ferdina’... Ferdina’, pecché hê fatto chesto? Hê perduto nu posto sicuro, pe’ sta benedetta gelosia. Ma chi vuo’ ca me guarda a mme? Tu faie chesto pecché nun me saie. Si me vedisse, nun sarrisse accussì geluso... Ferdina’, io so brutta!”9.

A tanta smarrita sofferenza, poi, Viviani porge la carezza di quello sguardo amorevole sull’umanità che, perché libero da qualsiasi mediazione ideologica, ha fatto di lui il più grande poeta di Napoli. Così la didascalia finale vede Ferdinando e Nannina: “Lentamente s’avviano, sorreggendosi l’un l’altro. Una sola figura. Li guida il suono della musica, che continua, dolcemente, nel silenzio”.